Per molti anni la pellicola è stata il riferimento per la fotografia. Essa è costituita da un supporto flessibile di cellulosa o materiale plastico rivestito da strati sensibili alla luce di un’emulsione di alogenuri di mercurio. Questo materiale impressionato nella fase di ripresa fotografica viene successivamente sviluppato in una camera oscura dove l’immagine latente diventa visibile attraverso il procedimento di stampa. Si tratta, in sintesi, di quello che era il procedimento utilizzato per la ripresa e stampa della Fotografo matrimonio Roma fino all’introduzione di un supporto digitale che ha cambiato radicalmente la fotografia trasponendola a pieno titolo nella nuova era digitale.
A partire dagli inizi degli anni ’80 è stato introdotto nelle fotocamere, un sensore digitale sensibile alla luce che sostituisce la funzione di acquisizione dell’immagine che passa attraverso l’obiettivo, in luogo della “vecchia pellicola”. Questo sensore che può essere di diversi tipi, anche se quello più diffuso attualmente è il CCD, è sensibile alla luce che riceve e la trasforma in segnale digitale che viene successivamente elaborato dal software della macchina ed immagazzinato in un supporto chiamato scheda di memoria.
E’ dunque nota a tutti questa evoluzione radicale che riguarda il passaggio dell’acquisizione dell’immagine da un supporto fisico di cellulosa ad un supporto digitale, costituito da un sensore elettronico che si sostituisce alla prima. L’evoluzione tecnologica della Fotografo matrimonio a Roma non è solo quella dell’introduzione del sensore digitale su prodotti rivolti al mercato “consumer” negli anni ‘90, ma parte ben prima con l’introduzione nel tempo di meccanismi elettronici e meglio elettromeccanici che pian piano hanno sostituito gran parte delle parti meccaniche rimandando dunque la gestione della ripresa da parte del fotografo a meccanismi sempre più complessi e gestiti da microcip e software man mano sempre più avanzati e precisi.
Durante il secolo scorso ci sono state diverse evoluzioni che hanno visto l’arricchimento della dotazione tecnologica delle macchine fotografiche, basti citare ad esempio l’introduzione di meccanismi di assistenza alle riprese che hanno portato alla creazione di macchine semiautomatiche o automatiche. Ricordiamo il passaggio dall’otturatore completamente meccanico a quello elettronico (anni ’60); il 1976, anno in cui per la prima volta Canon ha commercializzato una reflex contenente un microprocessore (Canon AE-1); gli anni ’80 con i programmi di gestione degli automatismi di scatto e ripresa (modalità automatica, a priorità di diaframma, a priorità di tempi, e selezione di funzioni specifiche come ritratto, macro, paesaggio, notturno ecc.).
Non da ultimo, sempre inizio anni ’80 l’innovativo sistema di focheggiatura automatica ovvero l’autofocus (messa a fuoco che prima veniva esclusivamente effettuata manualmente dall’uomo).
Il sensore è composto da CCD Charge Coupled Device, dispositivo ad accoppiamento di carica sulla cui superficie sono disposti diodi fotosensibili comunemente conosciuti come pixel. Ciascun fotoelemento (pixel) raccoglie una piccola porzione dell’intera immagine inquadrata. Il paragone migliore è quello di un un’immagine di un mosaico costituita da milioni di tessere ognuna delle quali rappresenta un pixel. Quindi le immagini digitali sono costituite da milioni di pixel la cui dimensione dipende dalla misura del sensore e dalla densità di essi. In generale vanno da 1,6 micron in poi. Il sensore digitale campiona la luce che passa attraverso l’obiettivo e la converte in segnali elettrici che vengono poi amplificati da un convertitore analogico-digitale che tramuta questi segnali in sequenze di numeriche a 8, 10 o 12 bit.
I pixel però possono registrare l’intensità della luce che li colpisce ma non il colore; riproducono una scala di 256 sfumature di grigio che vanno dal bianco intenso al nero profondo. Per questo motivo nella fase successiva le informazioni acquisite vengono elaborate dal software ad interpolazione cromatica con il sistema di Bayer che si basa sui tre colori primari rosso, verde e blu. In questo modo si ottiene un’immagine a colori.
Nelle attuali macchine fotografiche vi sono veri e propri computer con algoritmi capaci di gestire milioni di informazioni in tempi ridottissimi e estrapolare i dati dei pixel convertendoli tramite l’interpolazione cromatica (demosaicizzazione) in immagini che verranno poi immagazzinate e salvate.
Nella gestione dell’acquisizione dell’immagine finale il processore della macchina si occupa anche di ridurre la presenza del rumore, ovvero alla presenza di “grana digitale” che si ha nei casi di riprese ad alta sensibilità, in genere oltre i 1600 ISO. L’immagine può essere acquisita ed immagazzinata in formato nativo ovvero RAW e quindi senza perdita di qualità oppure in formato JPEG che è uno standard di compressione dell’immagine (intesa come file).
In fine grazie alle schede di archiviazione che sono simili a dei piccoli SSD (Solid State Disk) è possibile archiviare l’immagine ripresa che poi potrà essere scaricata tramite cavo o PC su un HD esterno o nelle macchine che hanno funzioni più avanzate anche archiviate in un cloud.
Nella storia degli ultimi anni la tecnologia introdotta nelle macchine fotografiche, ma anche negli smartphone e tablet di ultima generazione ha ampliato le possibilità di ripresa fornendo all’utente strumenti che prima non esistevano dando la possibilità di incrementare le modalità di scatto anche in condizioni di luci estreme, impensabili con le macchine a pellicola di un tempo.